Se volete per

Bocche Scucite 1 febbraio 2009
Editoriale
"La strategia unica e il prete panettiere. Avete mai sentito parlare del ‘popolo delle termiti’?
Si tratta di un popolo che ama scavare nella terra, creare cunicoli da cui
far passare di tutto, perfino generi voluttuari come biscotti. Di un
popolo che appena gli bombardi questi suoi amatissimi cunicoli, subito
li scava di nuovo, perché gli piace tanto, perché magari anche ci gode, a
vivere tumulato sotto terra. Potremo riassumere in quest’immagine orribile la ‘fine della guerra’
secondo l’inviato RAI Pagliara. In questo modo disumano ha definito i
palestinesi di Gaza in un servizio di qualche giorno fa, mentre
riprendeva alcuni giovani palestinesi che stavano ripristinando i tunnel
di collegamento con l’Egitto serviti in questi anni di blocco e di
embargo all’approvvigionamento di viveri e generi di prima necessità.
Perché se non lo sapete la ‘guerra’ è finita e Pagliara è già pronto a
raccontarci il dopo. Fine della guerra. O meglio invece fine del massacro più grande. Ma
non certo fine della disumanizzazione, della negazione dell’altro come
uguale a sé, detentore degli stessi diritti, in quanto appartenente alla
comunità umana. Invece la “vittoria” è nei numeri: 10 a 1.000, perché
questo vale un essere umano se non è israeliano.
E dietro a tutto questo, una strategia calcolata e perversa che dura da
sessant’anni, anzi, come sostiene Ilan Pappè (Il manifesto, 27 gennaio),
che era stata ideata e messa in atto dai sionisti a partire dagli anni
trenta, anni in cui invece, secondo Umberto Eco (L’Espresso 29
gennaio), evidentemente ancorato alla mitologia dei sionisti che hanno
fatto fiorire il deserto “gli ebrei israeliani hanno coltivato le loro terre
di Palestina con metodi modernissimi costruendo fattorie modello e si
battono proprio per difendere un territorio in cui vivono stanzialmente.
Ed è proprio questo che l’antisemitismo arabo rimprovera loro.”
“Stiamo parlando della stessa società- dice invece Ilan Pappe- che, nel
’48 e nel ’67, ha espulso i palestinesi dalle loro terre. Dopo 60 anni
d’indottrinamento, di de-umanizzazione dei palestinesi, di demonizzazione
dei palestinesi, ucciderne un migliaio in tre settimane non ha
rappresentato un grosso problema. I media, la cultura politica, hanno
preparato la società ad accettare questi massacri come un ‘atto di
autodifesa’”. Come continuare dunque, giocando sempre la carta sdrucita
dell’autodifesa, della sicurezza del proprio popolo, a perseguire la
strategia iniziale, quella che Pappe non esita a definire pulizia etnica, il
tentativo sempre più violento di allontanare più palestinesi possibili
dalla loro terra e al contempo di annettere sempre più terra allo Stato
d’Israele? “La strategia è tenere ‘in prigione’ Gaza e metà della Cisgiordania,-
afferma Pappe- così molti lasceranno il paese. Se ne avranno bisogno,
lanceranno una nuova pulizia etnica, o un genocidio, o l’occupazione.
Questi sono solo strumenti. Ciò che conta è che la strategia non è
cambiata.(…) Gli israeliani vogliono controllare indirettamente la
striscia di Gaza, ma non sanno come comportarsi con i suoi abitanti. E
se i palestinesi resistono, mettono in atto punizioni collettive sempre
più estreme. Cari amici di Bocchescucite, vogliamo in questo editoriale affiancare a
queste parole, a quest’analisi lucida e autorevole di uno dei più grandi
nuovi storici israeliani, le parole semplici di padre Manuel, parroco
della parrocchia della Striscia, perché da lui possiate percepire, come lo
abbiamo fatto noi, come poi queste strategie, queste sordide
pianificazioni di occupazione di spazi e di distruzione indifferenziata di
beni altrui, diventino dolore, mancanza, lutto infinito. Padre Manuel, da
Gaza, ci ha scritto una lettera straordinaria: “Gaza stava già soffrendo prima di questa guerra, soffre durante questa guerra e continuerà a soffrire dopo questa guerra.
Molte famiglie si sono rifugiate nelle scuole della Nazioni Unite
(UNRWA) dove pensavano sarebbero state al sicuro. Ma sono state
bombardate. Le condizioni di vita sono terribili, con 50-60 persone
a sopravvivere in una stanza, senza elettricità, acqua, senza letti o
cibo e nessun luogo in cui lavarsi. Gli aiuti dell’emergenza non ci
sono ancora arrivati e dato che tutti sono troppo spaventati per
avventurarsi nelle strade, la nostra gente non può raggiungere i
magazzini dove sono conservati gli aiuti della Croce Rossa e
dell’UNRWA. Così come le distruzioni e le ferite fisiche sono incalcolabili, è
incalcolabile anche il trauma psicologico della nostra gente. Avrà
bisogno di aiuto e supporto per chissà quanti anni a venire. Dovrà
trovare un qualche posto in cui vivere e noi avremo bisogno di
centri per i feriti resi disabili dai bombardamenti, di scuole
speciali per i traumatizzati, per i bambini orfani e tutta una serie
di servizi di riabilitazione. L’acqua pulita è scarsa, così che entrambe le nostre scuole in
Remal e a Zaitoon forniscono l’acqua alla gente locale grazie ad un
pozzo artesiano, scavato dalla generosità di donatori austriaci. Il
generatore della scuola produce elettricità per il forno vicino, dato
che non si trova pane da settimane. La gente dice: “Il prete è
diventato un panettiere”, ed è vero, e siamo contenti di essere in
grado di farlo.” “Pulizia etnica o apartheid? –riflette ancora Pappè-. Si tratta di due
elementi che non possono essere separati: apartheid significa creazione
di aree riservate soltanto ad un popolo. Le puoi ottenere dalla
separazione o dall’espulsione di uno dei popoli, o dall’uccisione.”
Ecco allora il prete panettiere, quest’uomo che soffre e si dispera e poi
con la sua gente confida nell’umanità di altre persone, che non smette
di voler far conoscere le sofferenze della sua gente e per lei non si
vergogna di chiedere aiuto, diventare non meno lucido dello storico
nell’avvertirci che, se certamente Gaza oggi ha bisogno di aiuti e di
essere ricostruita, ha soprattutto bisogno che quella strategia abbia fine.
Ci scrive ancora Padre Manuel: “La guerra deve finire ora. Il mondo deve trovare una soluzione
per il popolo palestinese e non semplicemente tornare alla
situazione in cui si trovava prima che tutto questo iniziasse. I
confini con Israele devono essere ridisegnati e l’occupazione, che è
iniziata 60 anni fa, deve finire. Lo status dei rifugiati palestinesi
deve essere risolto perseguendo il Diritto al Ritorno, mentre
Gerusalemme Est deve essere la capitale dello Stato palestinese.
Dobbiamo radere al suolo il Muro dell’apartheid, aprire i passaggi
di frontiera, liberare i detenuti palestinesi e rimuovere gli
insediamenti israeliani, così che la terra potrà tornare ai suoi
originari proprietari palestinesi. La pace è possibile solo se comprende la giustizia. Quando il mondo restituirà al popolo palestinese i suoi diritti, allora ci sarà
sicuramente la pace nel Medio Oriente. Tutta la gente di Gaza dice grazie a voi, nostri amici ovunque voi siate, per le vostre preghiere costanti e particolarmente per l’aiuto
di cui abbiamo urgentemente bisogno e che speriamo ci raggiunga
presto”. E mentre il popolo di Palestina continua, in ossequioso omaggio alla
laboriosità delle termiti, a lavorare instancabilmente laddove i buldozer
distruggono, a ricucire ferite che continuano a bruciare perché
tenacemente, legittimante vuole continuare a lottare per vivere con
dignità nella propria terra, ecco che l’esimio studioso nostrano Umberto
Eco, fuori dal mondo e dalla storia, ma in affollata compagnia,
sorvolando amabilmente su Nakba, Naksa, occupazione e massacri, ci
informa che “il territorio palestinese non era stato conquistato con la
violenza, e la decimazione degli autoctoni, come in America del nord
bensì nel corso di lente migrazioni e installazioni a cui nessuno si era
opposto”. Come dice il caro amico Vittorio: restiamo umani. E quando qualcuno
nega addirittura la nostra umanità, facciamo tutti come i palestinesi di
Gaza: impariamo a sopravvivere anche dalle termiti, se occorre!
BoccheScucite
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